venerdì 4 aprile 2014

Macinare il grano nell'antica Roma

Sarebbe giusto allora che anche i chicchi di grano, quando sono frantumati dalla forza minacciosa del sasso, lasciassero sovente qualche traccia di sangue o d'altra cosa che trae alimento dal nostro corpo; e quando li schiacciamo con una pietra sulla pietra, dovrebbe colarne umore sanguigno.

Conveniebat enim fruges quoque saepe, minaci
robore cum saxi franguntur, mittere signum
sanguinis aut aliquid, nostro quae corpore aluntur,

cum lapidi in lapidem terimus, manare cruorem.

I, vv. 881-884 (p. 119)

Nell'intento di confutare la teoria delle omeomerie del filosofo greco Anassagora, il poeta cita un'attività molto particolare: quella di macinare il grano. Non è un caso se la tecnologia inerente il trattamento del frumento sia una di quelle che abbia impiegato le migliori abilità ingegneristiche dal momento che questa mansione è di vitale importanza per il genere umano, si situa alla base dei fabbisogni per la sopravvivenza. Sebbene però la civiltà latina si sia sempre distinta per il proprio avanzamento tecnologico, ai tempi della repubblica romana nei quali fu scritto questo poema didascalico, non esistevano ancora i mulini ad acqua che si svilupperanno più tardi, diventando comuni in età imperiale. Dalla preistoria all'età di Lucrezio, la produzione di farina avveniva schiacciando i semi tra due pietre levigate, con l'ausilio della sola forza muscolare o di animali. Il modello più comune era quello che prevedeva l'impiego di due macine, una fissata al terreno ed una sovrapposta a questa a forma di clessidra in cui era inserita una trave, spesso e volentieri spinta da degli schiavi.

Documento 1 Sezione del mulino a clessidra (Dyer, Pompeii, London, 1868, p. 356)

Foto 1 Il panificio di Pompei

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